“La casa vivente”, estratti dall’ultimo libro di Andrea Staid
Una visione antropologica dell’abitare, dal neolitico ai giorni nostri. Tra “navi della Terra” e abitazioni del futuro, passando per le alture della Liguria. In esclusiva per il Salone del Mobile.Milano, alcuni estratti dall’ultimo volume di Andrea Staid per ADD Editore: “La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire”.
È l’ultimo volume di Andrea Staid, docente di antropologia culturale e visuale presso la Naba, ricercatore presso Universidad de Granada e direttore della collana Biblioteca/Antropologia di Meltemi. Un saggio sulla visione antropologica dell’architettura, la storia dell’abitare dal neolitico a oggi e un diario di viaggio dal Perù andino alla Mongolia, passando per tanti altri paesi lontani mettendone sotto la lente di osservazione le architetture vernacolari. Case vive, che nella loro semplicità rivelano qualità sostenibili ed ecologiche ante litteram. Caratteristiche d’obbligo per noi contemporanei per evitare l’estinzione. “Per questo”, sostiene Staid “in uno scenario storico di collasso climatico e ambientale, è così importante ripensare e risignificare lo spazio abitativo attraverso un rapporto rispettoso con l’ambiente, per non farci sopraffare dall’era dell’antropocene... La casa del futuro non deve stare dentro le mura dell’appartamento, ma espandersi tra gli imprecisati limiti del fogliame dei parchi, del Terzo paesaggio, in città come in campagna, cercando di integrare giardini dai confini labili nella riorganizzazione dello spazio domestico… Noi esseri umani costruiamo una visione del mondo a partire dalle nostre case, che diventano filtri spazio-culturali”. Il desiderio dell’uomo di comprendere la natura dello spazio costruito esiste da sempre e da questa natura sono scaturiti le infinite forme dell’abitare. Qui di seguito alcuni estratti dai sei capitoli del libro per i quali ringraziamo l'autore e l'editore per la gentile concessione.
Incipit
Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto di origini austriache, affermava che l’uomo possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora. Tutte e tre devono rinnovarsi, crescere e mutare. Se la terza pelle, ovvero la casa, non cresce e non si modifica con le altre, si irrigidisce e muore, come la cute secca.
Sul campo, durante i miei viaggi di osservazione etnografica, la prima cosa che cerco di fare è creare un clima di fiducia e di ascolto attivo. […] Per questo tra le comunità indigene Dzao, in un villaggio di palafitte situato a duemila metri di altitudine totalmente autocostruito, ho iniziato a rapportarmi con gli abitanti del villaggio descrivendo la mia casa attraverso le immagini. Ho cominciato mostrando la foto della porta blindata dell’appartamento e a quel punto il nucleo familiare con cui stavo lavorando ha osservato l’immagine e mi ha chiesto che cosa fosse. Ho detto che si trattava della porta di casa e mi hanno risposto che anche loro avevano una porta, di legno, che si apre e si chiude senza difficoltà; non capivano perché quella fosse così grande e spessa. Ho spiegato allora che, dove abito io, quando siamo in casa, andiamo a dormire o usciamo chiudiamo quella porta a chiave.
«E non avete paura?», mi hanno chiesto a quel punto.
1. La casa per l’uomo
«Nell’abitare risiede l’essere dell’uomo», dice Heidegger. L’abitare è «il bozzolo in cui gli esseri umani prendono forma», scrive Benjamin. Concentrarsi sulle nostre case, sui modi in cui abitiamo il mondo, significa considerare come diamo forma alla nostra umanità più intima.
[…] Vivere e abitare, sinonimi in molte lingue, potremmo considerarli parte dei processi di formazione in un mondo dinamico di energie, forze e flussi.
2. Architettura organica e trasparente
All’omogeneità, le città del futuro dovranno sostituire la ricchezza della diversità in tutte le sue forme; le superfici organiche dovranno invadere, colonizzare, riconquistare quelle minerali, creando varchi per la varietà della vita.
Questo cambiamento non deve avvenire dall’alto verso il basso, ma da una coscienza collettiva che abbia compreso l’impossibilità di continuare con lo stile di vita del cemento e del condizionatore onnipresente, della chiusura nello spazio privato e della natura addomesticata in tutte le sue forme urbane. Bisogna rovesciare lo sguardo che finora abbiamo rivolto al paesaggio, riconsiderare i materiali di costruzione, conoscere meglio i luoghi che abitiamo, rallentare i nostri ritmi di vita. Dobbiamo “abitare meno”.
3. Un giro del mondo. Le architetture vernacolari
Dora P. Crouch e June G. Johnson in Traditions in Architecture: Africa, America, Asia and Oceania esaminano le architetture in culture al di fuori della tradizione euroamericana. Leggendo il loro studio possiamo constatare, in contrasto con le tradizionali indagini della storia dell’architettura, che esistono caratteristiche costruttive di base condivise in tutte le comunità umane. Gli edifici delle comunità indigene che ho incontrato in questi anni […] non sorgono nel vuoto, fanno parte della vita e della cultura dei popoli che rappresentano, non rimangono immutate nel tempo, ma si modificano e si arricchiscono con l’incontro di nuove tecnologie costruttive.
L’ultimo viaggio che propongo […] è l’esperienza statunitense delle earthships, le “navi della Terra”, abitazioni completamente ecosostenibili che uniscono architettura vernacolare e utilizzo di ecotecnologie, una vera ibridazione tra tradizione e innovazione. […] Nei primi anni Settanta l’architetto Michael Reynolds decide di dar vita a un nuovo modo di pensare l’architettura e lo fa costruendo a Taos, nel New Mexico, il primo prototipo di earthship, dove i materiali utilizzati dall’industria delle costruzioni vengono sostituiti da semplici lattine di birra riciclate e poi intonacate. Un’architettura del recupero dello scarto in una società capitalista che non si preoccupa abbastanza di come smaltire i propri rifiuti, che in questo caso diventano invece possibilità di ripensare la casa. Edifici costruiti anche con pneumatici usurati, riempiti di terra battuta e trasformati in mattoni.
4. Abitare nel cratere
Come ci ricorda Franco La Cecla, è necessario ricostituire la capacità di “fare mente locale”, cioè quella capacità di ambientarsi e di essere influenzati emozionalmente dallo spazio, attività ostacolata da pianificatori e burocrati.
Prima di questa rivoluzione consumistica, la casa, spesso costruita con l’aiuto di parenti e amici, era il rifugio, il luogo sicuro dove prendersi cura di sé e degli altri, che rifletteva le proprie abitudini e uno stretto legame con i luoghi: era adatta al clima locale e per costruirla erano utilizzati materiali del posto. Chi si costruiva la casa conosceva i luoghi, faceva parte di una comunità in cui si rispecchiava, e la sua casa era la naturale espressione di questa situazione. Una volta iniziata, poteva essere facilmente modificata e ingrandita a seconda delle esigenze.
5. Piccoli gesti, grandi cambiamenti. Case ecologiche, utopie concrete
Le protagoniste delle nostre città, delle nostre case del futuro dovranno essere le piante. Dal mondo vegetale possiamo imparare molto. Le piante, utilizzando soltanto modelli organizzativi diffusi, decentralizzati e reiterati, si sono liberate per sempre dei problemi di fragilità, burocrazia, distanza, sclerosi, inefficienza, tipici dell’organizzazione gerarchica o centralizzata di natura animale.
Una grande opportunità per gli anni a venire è quella di convertire le abitazioni esistenti, e soprattutto di smettere di costruire case inquinanti per noi e per l’ambiente. Una buona soluzione è quella delle case passive. Queste case non sono una novità. Già nel 1988 due università nordeuropee decisero di collaborare per concepire una nuova generazione di abitazioni a impatto zero sull’ambiente. L’idea di partenza era di sfruttare le qualità dei materiali costruttivi ecologici, vernacolari e l’esposizione solare per ridurre al minimo il fabbisogno energetico necessario al riscaldamento dell’edificio. I protagonisti di questa ricerca erano il fisico tedesco Wolfgang Feist e Bo Adamson, ricercatore presso la facoltà di ingegneria dell’università di Lund, in Svezia.
6. Una casa da antropologo. La mia esperienza sulle alture in Liguria
Che cosa ho imparato attraversando altri modi di vivere? Che cosa ho appreso dal giro del mondo tra le architetture vernacolari? Per prima cosa, ho capito che lo spazio interno non è l’elemento più importante dell’abitare. […] Dopo un anno passato a cercare case enormi, ho seguito l’esempio delle popolazioni indigene incontrate tra i monti di Vietnam, Thailandia e Laos. Ho cercato una casa piccola, ma con un bellissimo terreno esposto al sole, pieno di ulivi, alberi da frutto e terrazzamenti, dove avremmo potuto cominciare a produrre il nostro cibo. Lo spazio abitato interessa il terreno nella sua totalità e non la limitata superficie dell’edificio.
Sulla scia delle teorie di Ellul e a partire dal suo lavoro sulla Megamacchina, Serge Latouche insiste da ormai vent’anni sull’importanza della decrescita, un’idea spesso non compresa come teoria e pratica di resistenza anticapitalista.
Su questa linea, Danowski e Viveiros de Castro si domandano: «Esiste un mondo a venire?».
Credo di sì, ma dobbiamo cambiare questo sistema economico, spostare i nostri occhi dalle luci al neon del capitalismo e iniziare un nuovo cammino, anche guardando alle pratiche di chi non ha mai intrapreso la via della crescita senza fine.
Non può esserci una crescita illimitata in un mondo limitato, la distruzione del pianeta è sotto gli occhi di tutti, dobbiamo fermarci, l’antropocene è l’apocalisse, nella sua duplice accezione etimologica ed escatologica.
Titolo: La casa vivente. Riparare gli spazi. Imparare a costruire
Autore: Andrea Staid
Casa editrice: ADD Editore
Anno di pubblicazione: 2021
Pagine: 168