Marcin Rusak: “Non sono un furniture designer convenzionale”
L’artista e designer multidisciplinare polacco classe 1987 racconta il suo approccio alla progettazione, la sua idea di ricerca e la sua relazione con il tempo
«L’arte ci mette spesso in una posizione scomoda per pensare e soprattutto per cambiare», ha affermato una volta il creativo e designer multidisciplinare polacco Marcin Rusak. Non ha sicuramente paura di cambiare, lui, anche se inconsciamente cerca di rallentare il più possibile il processo ma è il pensiero la sua parte più vivace e mobile. Il dualismo un tratto della sua personalità.
La bellezza apparente dei fiori, suo “materiale” preferito da plasmare, non è altro che uno stratagemma con cui cerca di preservare e modificare qualcosa che segue un suo corso inevitabile, in un catalogo vivente di materia botanica in decadimento che è un giardino gotico effimero e straniante. Lo compongono vasi, sedute, lampade, sculture e altri arredi che sono stati creati con materiali organici della flora “bloccati” nel loro stato a imperitura memoria nel loro declino.
Marcin Rusak, nato e tornato a Varsavia dopo aver vissuto per dei periodi di studio in Olanda e Inghilterra, è adesso concentrato sul “custodire” la spettrale villa del ‘600 in stato di abbandono a Swidno a un’ora di macchina dalla capitale polacca, che ha scelto come centro per la sua arte. «Tante delle cose qui presenti parlano di declino e conservazione, e di quello che ci sta in mezzo, ed è vero che questo possa spaventare…», afferma Rusak. Mentre stanno per essere svelati i suoi nuovi pezzi unici realizzati per la Carpenters Workshop Gallery in mostra ad ottobre a Parigi, Marcin Rusak si racconta.
Ho capito nel tempo che non voglio rispondere a questo quesito. Mi interessa la ricerca, come faceva mio nonno con le specie di fiori che coltivava. È una cosa molto personale per me, perché mi riporta ai ricordi della mia infanzia. Mio nonno aveva delle serre, attività che nessuno ha voluto portare avanti, cessata in corrispondenza della mia nascita, quindi nella mia memoria c’è solo la fase dell’abbandono.
Lui lo faceva con uno spirito ovviamente diverso dal mio. A me interessa molto di più come si possano comparare le persone alle orchidee, le loro emozioni umane a come quei fiori interagiscano col loro ambiente nel tempo.
Certo, lo possiamo affermare. Non sono un furniture designer convenzionale: uso i fiori e la scultura per trattare di questi argomenti. Tutto ha a che fare con l’imparare da un materiale che cambia, invecchia ed evolve diventando sempre più commesso, collegato col l’umano fino al suo completo decadimento. Ti leghi a esso e, a un certo punto, non vuoi che se ne vada. Il contrasto tra questi due nozioni mi ha affascinato ed interessato fin dall’inizio.
Flora si basa su l’iniezione di un batterio nei fiori bloccati nella resina. Lungo un periodo di anni, che può durare anche decenni, il batterio si nutre dei fiori consumandoli, lasciando il vuoto della vita. Flower Monster, ad esempio, è stato invece guidato dall’idea della manipolazione. Nel 2014 non era ancora conoscenza comune il fatto che i fiori venissero manipolati per le nostre esigenze, con notevole dispendio di energia. Mi affascinava l’idea che questa natura che ci mettiamo in casa a simboleggiare la vita, richiedesse uno sforzo così grande per essere realizzata ed avere una durata così breve.
Provo a non avere una fine nell’opera, a non completarla. Nel momento in cui finisco un pezzo fisicamente inizia il vero processo, quando lo lascio e l’ambiente, la natura, le persone se ne appropriano. La nostra preoccupazione per come invecchieranno le opere, come diventeranno è l’aspetto che più mi fa riflettere. Per alcuni dei vasi Flora che abbiamo venduto abbiamo un accordo per il quale possiamo tornare a vedere l’evoluzione e cosa diventeranno.
Esatto, infatti è una frenesia sottostante che non mi consente di lavorare su un pezzo solo alla volta. Il complesso della mia opera si chiama Living Archive, con una vita propria che continua anche dopo il nostro intervento. Sto cominciando a pensare che il momento in cui mi sento meno a mio agio sia la parte più intrigante del processo creativo, in allerta su quale direzione la cosa possa prendere. Certe volte ho delle idee che devo immediatamente concretizzare o visualizzare. Questo richiede del tempo e delle pause per capirne il vero significato. Talvolta penso che non ci sia altro modo se non di creare d’istinto e poi post razionalizzare. Mi sento limitato se seguo il processo inverso.
Che attuiamo internamente qui nello studio con il team di 11 persone, con molta sperimentazione. Non posso pensare di affidare ad altri la creazione di un oggetto e quello che facciamo principalmente è concepire il prossimo progetto. Ho uno strano rapporto con i miei oggetti. Quando li realizzo sono completamente focalizzato su di essi, ma poi li lascio e sono proiettato immediatamente su altro.
Ho una personalità complessa e scissa, allo stesso tempo introversa ed estroversa. Vivo nell’alternanza di esaltazione con degli stati di tristezza, e questo si ripercuote su quello che creo. Dopo due anni di ricerca e sperimentazione su un lavoro, il momento in cui scatta il “click” è quello più entusiasmante per me.
Un creativo.