Nina Bassoli racconta Take Your Sit / Prendi Posizione
Nina Bassoli, architetto e ricercatrice milanese, è la curatrice di "Take Your Seat / Prendi posizione", un progetto espositivo realizzato in collaborazione con ADI - Design Museum che sarà ospitato dal Supersalone dal 5 al 10 settembre.
Parlaci di come è strutturata la mostra. Come si articola? Chi ha collaborato?
È un onore per ADI Design Museum far parte di questa edizione speciale del Salone del Mobile che è un'edizione sicuramente ottimista, un po' sperimentale - e quindi questa è una prima cosa interessante - come è un po' sperimentale questa mostra, una mostra unica divisa in quattro parti dislocate nei quattro padiglioni occupati dal Salone più una piccola sezione dentro il Museo, che funziona proprio come una dichiarazione di volontà di fare rete tra il Salone del Mobile e la nuova istituzione cittadina dell’ADI. Nel mio caso è la prima collaborazione con ADI e ne sono stata abbastanza sorpresa e molto contenta. Penso che sia un'iniziativa interessante già dal punto di vista del tentativo di un allargamento disciplinare, in quanto io, come curatrice, e architetto di formazione, sono solo parzialmente legata al mondo del design. Alessandro Colombo e Perla Gianni Falvo hanno seguito l'allestimento delle quattro aree con un grande supporto da parte dello staff dell'ADI Design Museum e dell'archivio del Compasso d'Oro, in particolare la Collezione Storica di cui è responsabile Alessandra Fontaneto, che ci ha accompagnato come un Virgilio in questa ricchissima “selva”. Il lavoro è stato interessante perché, per quanto sempre in tempi strettissimi, c'è stata la possibilità di attingere a un archivio che è già di per sé un regalo per un curatore: la Collezione è strutturata in un modo bellissimo nel senso che è una sequenza di oggetti selezionati in base al momento storico in cui sono stati assegnati i Premi e le Menzioni d'onore e questo è molto interessante dal punto di vista di un racconto evolutivo del design, che si dispiega a partire dal 1954 per arrivare fino a oggi. La decisione, quindi, è stata quella di lavorare con un solo tipo di oggetto specifico in modo da tenere in qualche modo un basso continuo rispetto a questa cronologia, questa evoluzione. Abbiamo scelto la sedia, che in un certo senso è un classico; il concetto è vedere cosa accade lungo molti decenni. È la prima volta che vengono esposte non solo tutte le sedie insignite del Premio Compasso d'Oro ma anche tutte le Menzioni d'onore, per cui alla fine abbiamo incluso nell'esposizione e nel catalogo (edito da Electa) più di 170 sedie. La sfida della mostra è quella di ragionare su questo oggetto non necessariamente tipologicamente ma soprattutto dal punto di vista dei comportamenti: cosa la sedia ci induce a fare? Questa forse è stata una scelta legata anche al periodo molto strano che stiamo vivendo, in cui i cambiamenti dei nostri comportamenti sono radicali e drammatici. La grande domanda a monte di tutto è: cosa può fare il design di fronte alle crisi e a grandi cambiamenti, come risponde ai mutamenti sociali, economici e in questo caso magari anche sanitari? La sedia è un ottimo esempio per ragionare su questo, in quanto è l'elemento individuale per statuto - io mi siedo sulla mia sedia - però è anche quell'elemento che aggregato costruisce il gruppo. Altri oggetti non lo fanno, non hanno questo duplice valenza. Il sottotitolo della mostra, "Solitude and Conviviality of the Chair", è la tesi. Cosa possiamo chiedere a una sedia dal punto di vista dello stare da soli e dal punto di vista dello stare insieme? È un grande tema che esce dalle riflessioni degli ultimi mesi vissuti in grande solitudine, una solitudine prettamente individuale o magari allargata al nucleo familiare, ma in ogni caso una condizione di isolamento.
Entriamo nel merito delle quattro (anzi cinque) sezioni.
La prima sezione si chiama “Take Your Seat” come la mostra ed è dedicata a quella che Umberto Eco definisce come la "funzione seconda della sedia". La sua funzione prima è quella di farti sedere in una posizione corretta; la sua funzione seconda invece è una funzione di rappresentanza, quindi consiste nel veicolare un significato. In questa sezione troviamo le sedie più iconiche, gli oggetti più spinti dal punto di vista del linguaggio. Sono tutte sedie singole organizzate ognuna sul suo piedistallo e sono accompagnate da un commento video frutto di una ricerca fatta da Davide Rapp, artista e regista, architetto e designer di formazione, che ha fatto un montaggio a partire da alcune sequenze cinematografiche che mostrano in modo molto immediato come la sedia sia stata in grado nei secoli di veicolare significati e in qualche modo di interpretare le diverse rappresentazioni del potere. Faccio sempre l'esempio della Sacco su cui il povero Paolo Villaggio viene invitato a sedersi del suo sadico capo, il Mega direttore galattico. Fracchia non “sa” sedersi su questa sedia e questo lo umilia per la sua “ignoranza”, legata al suo stato sociale inferiore. La seduta è, insomma, già di per sé una dichiarazione di potere.
La seconda sezione “Work Learn Produce” è dedicata al mondo del lavoro quindi ed è legata ai comportamenti dell'apprendere, del lavorare, del produrre in modo individuale. Naturalmente i ragionamenti che si legano all'ultimo periodo sono molti nel senso che tutti o quasi abbiamo cambiato la nostra posizione lavorativa molto radicalmente. In questa sezione sono raccolte naturalmente un certo numero di sedute da ufficio, ma anche, ad esempio, delle chaise longue. Infatti, anche se per una concezione modernista del disegno industriale, la chaise longue è il luogo del tempo libero e quindi in senso tipologico, se vogliamo, il contrario del lavoro, negli ultimi mesi credo che tutti abbiamo mandato delle gran mail dal divano o lavorato per ore con il nostro laptop dalla poltrona, quindi anche questo tipo di catalogazione più tipologica e se vogliamo ideologica del design sta sfumando. Il commento artistico che accompagna questa sezione è una installazione video composta dalla collaborazione tra due collettivi che sono Fosbury Architecture e (ab)Normal. I due gruppi hanno unito due ricerche: quella che Fosbury Architecture porta avanti da diversi anni sugli "Environment of Resistance for Social Individuals", i luoghi di resistenza individuali (come potrebbe essere lo studiolo di San Gerolamo) dove io trovo la mia concentrazione isolandomi dal mondo e della società, e dall'altro lato il lavoro di (ab)Normal sui mondi virtuali e su cosa vuol dire il fatto che, quando lavoro, incontro sempre un'interfaccia che può essere il monitor, lo schermo - ma potrebbe essere anche un libro, o semplicemente un foglio bianco – che mi connette con un altrove. A questo si è aggiunta un’ulteriore parte di ricerca molto interessante, sviluppata appositamente per la mostra, a proposito dei diversi tipi di intrattenimento virtuale emersi negli ultimi mesi, che sono stati “portati” dentro a questi ambienti di resistenza, istituendo un cortocircuito tra la condizione di isolamento e la relazione con un possibile mondo altro.
La terza sezione “Cook Set Share” è legata al momento in cui si mangia tutti insieme, ovvero alla cucina, all'apparecchiare e al condividere. È sicuramente una cosa un po' italiana ma del resto è il pur sempre il Made in Italy il protagonista della Collezione. In questo caso la sezione è organizzata per gruppi di sedute rivolte una verso l'altra come se fossero apparecchiate per diversi banchetti. Il tutto è legato a come il momento in cui noi condividiamo il cibo è solo una parte di quello che avviene per questa preparazione. Molto spesso designer e cuochi sono stati influenzati a vicenda, forse sono le stesse persone che sono interessate a queste due cose. C'è un bellissimo lavoro che è una ricerca condotta da Anna Puigjaner, architetta spagnola fondatrice di Maio Architects, sulle cucine sociali nel mondo: parla della cucina come di un momento non tanto privato dove la divisione sociale dei ruoli impone ad esempio alla casalinga di preparare il cibo per la famiglia quasi di nascosto, ma come un momento di emancipazione, di condivisione e anche di formazione - quindi educativo – che avviene oggi in diverse parti del mondo. Inizia a esserci nel percorso espositivo un ritorno alla socialità, un momento di catarsi nel ritorno alla condivisione.
Quindi arriviamo all'ultima sezione “Going out, Going Public”, dove finalmente la dimensione privata si apre allo spazio pubblico. È il momento liberatorio dell'uscire, molto legata a riflessioni attuali su quanto abbiamo visto accadere negli ultimi mesi: tutti i bar, i ristoranti, gli eventi, i teatri,
gli spettacoli che si sono riversati in strada per far fronte alle misure anti Covid. Come? Semplicemente posizionando delle sedie all’esterno. In questa sezione si trovano sedute molto interessanti perché oltre alle sedie per esterni più classicamente concepite per stare all'aperto ci sono tutta una serie di sedute pieghevoli di tutte le epoche, oggetti anche inaspettati e divertenti che raccontano come la sedia possa fare lo spazio. Io posso prendere questo oggetto in mano e trasportarlo da dentro a fuori e cambiare completamente una situazione. Questa sezione è commentata da Matilde Cassani che lavora molto su questi temi e che abbiamo chiamato a ragionare sul confine tra interno ed esterno inteso anche come spazio domestico, privato che può diventare pubblico e quindi come effettivamente questa soglia possa essere un bordo sempre fluido. Queste sono le quattro sezioni che sono presenti al Salone, ognuna in un padiglione. Si possono vedere anche singolarmente però hanno senso tutte insieme. Poi c'è un'ultima sezione - o la prima se vogliamo - che abbiamo chiamato il Quinto quarto proprio perché è una sezione “extra”: una piccola selezione molto preziosa di sedie che sono esposte all'ADI Design Museum in via Bramante. Sono sedie non premiate col Compasso d'Oro che testimoniano esempi più radicali di sperimentazioni da parte di progettisti per così dire anti-sistema, che hanno segnato un percorso in un certo senso alternativo rispetto a quello del disegno industriale. È anche una riflessione su come le istituzioni come ADI - Compasso d'oro siano inserite all'interno di un mondo culturale dinamico con cui dialogano e che non può mai essere considerato come un sistema chiuso. C'è anche una cosa interessante da aggiungere che è la presenza abbastanza sottile di altre arti: alcuni versi poetici sparsi all'interno della mostra per accompagnare il visitatore e poi la presenza di un soundscape composto per l’occasione da Tempo Reale, il centro di ricerca musicale fondato da Luciano Berio, che commenta con un ulteriore livello interpretativo i quattro comportamenti.
Qualche nome di designer rappresentato nell'ultima sezione all’ ADI Design Museum?
Per esempio, la Sedia per visite brevissime di Bruno Munari che rimane un oggetto mitico. C'è la sedia First di Michele De Lucchi per Memphis, c'è la Golgota Chair di Gaetano Pesce. Poi c'è solo in forma di documento la Sedia n.1 dell'“Autoprogettazione” di Enzo Mari che quindi è rappresentata non come oggetto ma come progetto. Penso che per Enzo Mari sarebbe stata la cosa giusta. È anche un omaggio a un grande maestro che ci ha lasciato da poco. Con lo stesso spirito c'è una delle bellissime copertine di Casabella fatte da Alessandro Mendini, quella con la sedia chiamata Lassù che venne realizzata apposta e poi incendiata, proprio per fare questa copertina: un oggetto completamente inutile ma sacro, un “oggetto rituale”.
Infine, anche per fare un po' di promozione integrata, volevo chiederti tre parole sull'ADI Design Museum. Come nasce? Cos'è?
Poter lavorare con l'archivio ADI per un curatore è come per un bambino lavorare in pasticceria: è un archivio per sua struttura organizzato in un modo commovente perché segue cronologicamente quelli che sono stati gli oggetti premiati da giurie autorevoli, quindi ha un suo intrinseco senso di spirito del tempo molto forte, come se fosse un ordito che puoi incrociare con delle trame che scegli di volta in volta. Il Museo è bellissimo perché è la rappresentazione di un'istituzione culturale così importante, così radicata nel territorio milanese - e anche nel tessuto economico se vogliamo -, testimone di tutto quel momento pazzesco che fu la nascita del design italiano e di ciò che lo ha portato fino a oggi, e che in questo momento ha una ricaduta reale nel corpo della città con un'istituzione giovanissima, un museo appena aperto, quindi ancora non del tutto a pieno regime per quanto riguarda le potenzialità che potrebbe avere. Inoltre, si tratta di un luogo completamente aperto alla città nel senso che, anche fisicamente, è un luogo passante ed è costruito come un hub per cui al suo interno si trovano una mostra permanente che però è anche sempre cangiante, e che a sua volta si arricchisce di vari approfondimenti e idee di curatori e progettisti diversi. In questo senso esso stesso costituisce un hub di progettazione, di pensiero e di conoscenze. È bello proprio perché è molto aperto, molto vario, anche un po’ incasinato se vogliamo, che per me è un dato
molto positivo. Adesso si tratta di vedere come intrecciare la sua ricerca con quella delle altre istituzioni milanesi, si tratta di saldare e ampliare le reti, quindi questa mostra al Salone mi sembra una bellissima occasione per tessere questa trama. Se io fossi un visitatore straniero o anche italiano non di Milano sicuramente non perderei l'occasione di una visita in questo momento.