Planet city, un intero mondo in un’unica città
Liam Young, architetto e regista, racconta storie, immagina mondi futuri e disegna spazi immaginari facendosi carico dei grandi problemi contemporanei. Nel suo ultimo lavoro, Planet city un intero pianeta è racchiuso in una sola grande città.
Liam Young è un architetto e regista di origini australiane, che utilizza gli strumenti dello speculative design, del critical design e della fiction per immaginare futuri possibili per quell’ecosistema complesso che è la città. Ha all’attivo diverse produzioni di cui l’ultima, Planet city, ha partecipato allo scorso Tribeca film festival. Planet city oltre che un film, è anche un libro e un’esperienza in VR.
A giugno l'architetto ha partecipato alla talk Radical Nature - the design and science of worldbuilding, che Beatrice Leanza ha tenuto durante la 60esima edizione del Salone del Mobile di Milano.
Direi che sono entrambe le cose. Molti mi chiamano speculative architect. Sono un architetto che fa il regista, un film maker che fa design e che immagina e racconta storie su come viviamo, dando vita e forma ai modi in cui viviamo. In realtà non mi do un titolo e se proprio dovessi darmelo sarebbe sempre riduttivo rispetto a quello che faccio. Sono molto più interessato al modo in cui posso raccontare una storia attraverso i film. Non progetto quindi solo spazi o oggetti, ma immagino le esperienze in questi spazi e con questi oggetti.
Io credo che se vedi un chiodo, la soluzione non può essere sempre un martello. Il problema è che nella contemporaneità, molti dei problemi che incontriamo, non posso essere risolti con un edificio o una sedia. Quello che faccio nel mio lavoro, è esplorare un problema rendendomi conto che ci sono implicazioni di tipo sociale, politico, economico e culturale. Cerco quindi di tracciare una direzione diversa.
Con Planet city, il mio ultimo lavoro, quello su cui cerco di mettere l’accento è che il cambiamento climatico non è più una questione tecnologica. Ho cercato di dare forma ad una città science fiction, utilizzando però tecnologie che sono in questo momento disponibili e che lo sono ormai da almeno 10 o 15 anni.
Quello che ho capito è che il cambiamento climatico come dicevo è un problema sociale e politico, molto legato a pregiudizi culturali. Abbiamo quindi cercato di dare forma e una soluzione a questi pregiudizi.
Molti progetti cercano di trovare nuove soluzioni tecnologiche e attendono una specie di magia salvifica. In realtà abbiamo bisogno di un cambiamento culturale e di paradigma politico. Per questo creo storie o film utilizzando strumenti molto pop per poter raggiungere più persone possibile, per coinvolgerle e per renderle consapevoli della loro condizione invece di attendere una magia. Credo che la tecnologia non sia mai una soluzione assoluta e che il mio compito sia quello di raccontare le alternative.
Il modello dominante nel science fiction e nel future thinking è quello di creare trend e proiettarli nel futuro. Al momento i pattern ci indicano che andiamo verso un disastro, quindi non è difficile immaginare che le visioni future siano catastrofiche. Inoltre la distopia funziona molto bene nella narrativa dove alla fine arriva un eroe, biondo e bianco, a salvare il mondo. Nel mio lavoro cerco invece di utilizzare una contronarrativa.
Per molto tempo la narrativa intorno alla tecnologia è stata ultra positiva con l’idea che ogni nuova invenzione sarebbe stata capace di salvarci e facilitarci la vita. Mi viene quindi naturale tante volte creare delle distopie, perchè cerco di complicare la narrativa. I droni non sono solo la tecnologia che ci permetterà di consegnare pacchi e pizza, ma possono essere utilizzati anche per spiare i teenager o per spacciare.
Planet city è una lavoro che cerca di esplorare come possono essere nuovi modi di vivere cercando di continuare ad esistere su questa terra e di non estinguerci. Ho cercato di ricreare un’alternativa genuina di come i nostri stili di vita potrebbero cambiare conservando la nostra ricca cultura nelle sue diversità e tradizioni. “
Si, di solito quando s’immagina un mondo distopico, in questo mondo siamo tutti vestiti uguali, tutti somiglianti, tutti in fila a fare le stesse cose in belle uniformi. Nel futuro siamo tutti somiglianti ad un individuo senza emozioni e senza cultura. Ma anche nelle città utopiche o nelle culture mitologiche, fatte di folklore e religione, c’è questa idea per cui ad un certo punto la tecnologia ti salva in una sorta di tecno-utopia. In Planet city abbiamo cercato di vedere esattamente il contrario: mitologia, folklore, religione sono i modi in cui facciamo fronte alle cose sconosciute. É il modo in cui assimiliamo le nuove tecnologie e creiamo nuove storie creando nuovi rituali. Secondo me quindi il futuro sarà ricco di esagerazioni culturali e di rituali.
Abbiamo cercato di immaginare Planet city in un momento di celebrazione di questi rituali. Abbiamo mischiato e messo insieme ogni singola cultura del pianeta in un unico posto. Immagina NY, un luogo in cui nello stesso momento succedono così tante cose in un così piccolo pezzo di terra, e in quel caso non sembra tutto uguale, ma invece si riescono a scorgere le profonde differenze. Ci siamo resi conto, creando Planet city, che ogni giorno sarebbero potute accadere migliaia di cose, è come un grosso e gigante carnevale, un festival di 365 giorni che si muove e cambia forma, cambiano gli odori, i suoni, la musica; in una specie di processione perpetua.
E è forse questo l’antidoto alla tecno utopia o alla distopia.
Beh, devo essere onesto: ridisegnare un mondo è un progetto molto grande e complesso. In realtà è un progetto che continua a svilupparsi. Tornando alla domanda iniziale forse mi definirei un costruttore di mondi. Progetto mondi immaginari e questi mondi non hanno nessun tipo specifico di output, li puoi visualizzare attraverso un libro, un film, una storia, in un’esperienza VR, in una graphic novel. Alla fine questo mondo immaginario è un laboratorio in cui poter sperimentare e prototipare nuove possibilità, e in questo senso Planet city in realtà è un progetto senza fine.
Ma per essere pragmatici, ho cominciato nel 2020 durante la pandemia, ed è veramente stato il mio lavoro da pandemia, in un contesto in cui ci si doveva immaginare un nuovo mondo che fosse una specie di via d’uscita. É stato anche il modo in cui coinvolgere una comunità di amici e colleghi che, lavorando ad Hollywood come costume designer o come scenografi, erano rimasti senza lavoro. Siamo in America, senza welfare, in un mondo che è basato sul freelancing e quindi abbiamo cominciato a lavorare a questo progetto. Il progetto è evoluto in un video, un’esperienza in VR, un libro, in installazioni museali e continuerà in una serie di documentari.
Pensiamo anche di creare un videogame o un metaverso per una possibile community in questa location. Per concludere è un mondo, e come mondo ha tutte le sue complessità che un mondo può avere.
Ho creato un master post laurea alla Sci-Arch di Los Angeles in Fiction e Entertainment, cercando di pensare ad un modo differente di insegnare e fare architettura.
Credo che molti studenti che studiano architettura non progetteranno mai un edificio anche perché molto spesso il mondo delle costruzioni è completamente indipendente dagli architetti. Molti architetti al giorno d’oggi fanno esattamente quello che faccio io in forme diverse, ma il sistema universitario continua a formare le persone esattamente nello stesso modo in cui lo faceva anni fa. Volevo quindi creare un programma che aiutasse quelle persone che sono interessate a fare architettura in altri modi possibili. Quello che cerchiamo di fare è sviluppare le loro skills, dare forma a nuovi modi di lavorare perché siano capaci di sviluppare quelle skills.
TALK: Radical Nature - the design and science of worldbuilding