Thea Djordjadze trasforma le sue opere in relazione allo spazio
Al Gropius Bau di Berlino è in corso la più grande mostra istituzionale dell’artista georgiana di base a Berlino
Le mostre dell’artista georgiana di base a Berlino Thea Djordjadze, classe 1971, sono imprevedibili fino all’ultimo minuto prima dell’apertura. Perché sono strettamente interconnesse con lo spazio in cui nascono. Al centro di tutto il lavoro di Djordjadze c’è il processo. Il suo modus operandi è un flusso continuo di riutilizzo, riconfigurazione e riorganizzazione degli oggetti. È così anche al Gropius Bau di Berlino, dove è attualmente in corso la più grande mostra personale dell’artista in un’istituzione, intitolata “All building as making” (fino al 16 gennaio 2022).
Per i suoi lavori, Djordjadze combina parti di sue precedenti installazioni e nuovi elementi, creando un dialogo tra le opere presenti e quelle passate, ma anche tra i luoghi. Le opere d’arte si trasformano di volta in volta. Gli oggetti che usa sono elementi architettonici, oppure oggetti di uso comune: tavoli, sedie, parti di elementi d’arredo. Ricorrenti nella sua pratica sono i classici elementi del display, come le vetrine, le cornici, i piedistalli. I materiali sono l’alluminio, l’acciaio, il plexiglass, il legno, il gesso, la schiuma: materiali industriali, “poveri”, con uno spettro cromatico ridotto e poco attraenti.
In preparazione alla mostra, l’artista trascorre lunghi periodi nello spazio espositivo ad osservare e studiare accuratamente l’ambiente in cui si trova, le proporzioni, i mutamenti della luce, le tonalità. Non lascia niente al caso, ma allo stesso tempo cerca l’interazione con elementi accidentali, come la luce, l’ora del giorno, la stagione dell’anno, che mutano la percezione delle superfici e dello spazio. Thea Djordjaze non impone una lettura delle sue opere, ma lascia spazio alla fantasia e alla libera interpretazione dell’osservatore. L’artista non rilascia interviste, né usa pannelli esplicativi sulle pareti, che potrebbero distrarre lo spettatore dall’esperienza dello spazio. Quello che vuole è che l’opera parli per sé. Non esiste un messaggio univoco, quanto piuttosto un suggerimento, un invito a osservare e muoversi nello spazio. È proprio il movimento, più che la forma, quello che interessa all’artista, ed è per questo che nella fase di preparazione della mostra trascorre intere giornate a muoversi nello spazio, per esaminare ogni angolatura e ogni prospettiva, non solo in relazione all’interno, ma anche rispetto all’esterno. Al Gropius Bau, per esempio, è intervenuta con strati di vernice molto diluita sui vetri delle finestre per creare una membrana che mette in dialogo l’interno e l’esterno.
La pratica di Djordjadze di smontare e rimontare le sue sculture e installazioni rappresenta anche una critica alla concezione tradizionale dell’arte come opera conclusa. L’opera d’arte altro non è che materiale da riconfigurare all’interno dello spazio. Trasformando l’opera ogni volta in relazione allo spazio espositivo in cui viene esposta, lo spazio stesso diventa parte integrante dell'opera, che ha una durata solo temporanea. Tutto è in divenire, così come nella vita e nella realtà. Il suo modo di concepire lo spazio espositivo e, in particolare, i suoi riferimenti ai classici elementi espositivi usati per mostrare le opere d’arte rappresentano una critica al concetto di white cube e al contesto dell’istituzione artistica tradizionale. In occasione della sua mostra alla Secession di Vienna nel 2016, per esempio, l’artista ha trasferito il suo intero atelier a Vienna, privandosene lei stessa e trasformandolo in una scultura pubblica. Nel caso della mostra al Gropius Bau, invece, il museo è stato trasformato in una sorta di estensione del suo studio di Berlino, in cui l’artista continua il suo processo creativo.
Thea Djordjadze mette in discussione il concetto stesso di opera d’arte e invita lo spettatore a osservare più attentamente, a guardarsi intorno nello spazio, a percepire gli elementi che lo compongono, siano essi oggetti o raggi di luce.