Allestire voce del verbo progettare
Allestire è senz’altro voce del verbo progettare, ma orecchia anche, fortemente, il concetto di apparecchiare. Perché, se esiste una differenza tra l’allestimento e il progetto, questa sta nella durata.
Allestire è senz’altro voce del verbo progettare, ma orecchia anche, fortemente, il concetto di apparecchiare. Perché, se esiste una differenza tra l’allestimento e il progetto, questa sta nella durata. Usualmente l’allestimento è destinato a sopravvivere un tempo breve, dalle poche ore di una cena ai pochi giorni di un set fotografico, dalla settimana di uno stand al Salone del Mobile, al mese per una vetrina di un negozio o per una mostra d’arte.
L’allestimento è dunque una pillola concentrata e potremmo dire solubile (a rilascio rapido) del progetto. L’effetto deve essere il più immediato possibile. Qui sta la distinzione tra allestimento e progettazione museale (sovente confusi), allestimento e architettura degli interni (spesso confusi).
Come, allora, si può distinguere un allestimento riuscito da uno meno riuscito? Imprescindibile, per arrivare a una valutazione, la risposta ad alcune domande: “Cosa resta passata la prima impressione?”, “A quali valori di leggibilità-comprensibilità delle opere esposte si è giunti?”, “Quale chiarezza di percorso si è stati capaci di creare?”, “Quale la sinergia tra la mise en scène generale, le opere esposte e l’apparato grafico-didascalico?”, “Quale il rapporto tra durata e costo dell’allestimento stesso?”.
Usando una formula ormai svuotata di senso, perché ripetuta incessantemente per qualsiasi attività creativa (anche cucinare un risotto), potremmo sostenere che progettare un allestimento significa “raccontare una storia”. Ma, attenzione, non si tratta quasi mai della nostra storia (rare, infatti, sono le esposizioni montate dallo stesso protagonista della mostra - potremmo citare le impeccabili narrazioni di Renzo Piano), piuttosto della storia di un personaggio, di un movimento, di un materiale, di un’azienda che è altro da noi e che deve rimanere protagonista assoluta. Il lavoro del progettista di allestimenti è allora quello di “insegnare a vedere”. Insegnare a veder la magia e la grandezza altrui. Insegnare a vedere, contemporaneamente, l’insieme e il dettaglio: in questo senso un allestimento è come un albero, da lontano una massa di fronde, da vicino ogni singola fogliolina (e poi, si sa, lo diceva Munari, gli alberi - e quindi gli allestimenti - servono soltanto “a far vedere il vento”).
Quali sono stati i grandi architetti allestitori della nostra italica storia? Senz’altro Gio Ponti, fin dalla remotissima mostra sulla “Stampa Cattolica”, in Vaticano nel 1936, ove trasformò un percorso di accesso in un’antesignana macro-grafica. Senz’altro Franco Albini, ancora nel 1936, ma questa volta alla VI Triennale di Milano, nella esposizione della “Antica Oreficeria Italiana”, con teche tanto preziose quanto minimali. Senz’altro i fratelli Castiglioni, alla Fiera Campionaria di Milano negli anni ‘50-‘60, raccontando, per Eni o per Montecatini, ostici argomenti quali i fertilizzanti o le plastiche. Senz’altro AG Fronzoni, capace di coniugare segno e volume, arrivando nei pressi di un nulla sommamente espressivo (ricordiamo l’impossibilità della mostra “Poesia Concreta” nel 1969 a Cà Giustinian, Venezia).
E poi, venendo più vicini a noi nel tempo? Pierluigi Cerri, Italo Lupi, Gianfranco Cavaglià, Umberto Riva, Ferruccio Laviani e alcuni altri più giovani (Lorenzo Damiani, Paolo Ulian, Calvi Brambilla, Massimo Curzi, Alessandro Colombo) che hanno compreso come l’allestimento, esigendo un ritmo e un cerimoniale, possa essere, per il progetto, una palestra formativa ineguagliabile.
Esistono delle regole per creare un buon allestimento? Data per scontata la prima, che non è in realtà una regola, piuttosto una forma di legge morale, ossia provare una forte empatia per l’argomento, il personaggio e la tematica da rappresentare, tutte le altre regole cominciano con NON, esattamente come i 10 comandamenti di biblica memoria (ma consoliamoci, un allestimento sbagliato non ci farà bruciare nelle fiamme dell’Inferno!).
Non sostituirsi al curatore (caso mai crescere insieme a lui, progettando)
Non prevaricare (piuttosto sottolineare)
Non imitare (piuttosto lavorare per contrasto)
Non confondere il fruitore (piuttosto accompagnarlo)
Non dare nulla per scontato (piuttosto noiosi che elusivi)
Non sottovalutare il potere della luce (anche per una mostra al buio!)
Non sottovalutare l’importanza della grafica (piuttosto didattici che criptici)
Non bisbigliare, ma nemmeno urlare (qui nessuno è sordo!)
Non dare per assodate le conoscenze del pubblico (il progettista è colui che sa parlare a tutti)
E, soprattutto, non sentirsi Dio! (che è poi il problema di gran parte del progetto contemporaneo, tanto in architettura quanto nel design).