Andrea Carson
Annoverato tra i 40 migliori lighting designer al mondo, ridà luce a edifici o luoghi sconsacrati per dargli nuova identità nel nome della della light art
Convinto che l’Italia sia la patria del bello, Andrea Carson – 30enne originario di Novara – è affascinato dall’idea di ridare vita a edifici storici di alto pregio tramite il potente strumento dell’illuminazione. Unico studio premiato in Italia, è stato annoverato tra i 40 migliori lighting designer al mondo del premio “40 under 40” del 2020, indetto dalla rivista indipendente inglese Lighting Magazine, che seleziona i più promettenti giovani lighting designer al mondo. Con il team del suo studio – Luminum Lighting Design fondato nel 2015 – ha ridato luce alle creazioni dei giganti dell’architettura della sua città natale e della sua regione, dallo Juvarra all’Antonelli prediligendo i luoghi sacri, come il Seminario Arcivescovile di Vercelli, il Duomo di Novara o il Santuario Madonna del Sasso a Boleto, sul lago d’Orta.
Essenziale nel suo percorso professionale è la ricerca, avviata sempre nell’ambito della light art: tra i vari progetti “Where there was Light”, una vera e propria “caccia” a edifici o luoghi sconsacrati per dargli nuova identità e farli rivivere attraverso installazioni di luce. Rinascono così l’ex cappella del palazzo dello IED di Como adibita ad aula textile e sala eventi/conferenze e la vecchia stazione intermedia della funivia del Monte Bianco a 2173 metri di altitudine trasformata nel museo dello Skyway Monte Bianco. Innovazione e valorizzazione sono il tratto caratterizzante del suo pensiero progettuale, soluzioni che intreccino le nuove tecnologie con il rispetto per la tradizione.
Ha collaborato come Technical Partner a progetti con diversi Enti italiani (tra cui Politecnico di Milano, Triennale Design Museum, Università degli Studi di Napoli ) e ricopre il ruolo di consulente in ambito IOT per startup e non-profit, tra le quali la Fondazione TERA, con sede a Novara e laboratori al CERN di Ginevra, dove segue progetti per l’applicazione di tecnologie IOT nell’ambito degli spazi di cura dei pazienti oncologici.
È molto difficile stabilire un momento preciso, ma penso sicuramente la mia passione per il light design sia iniziata all’università. Ho studiato al Politecnico di Milano, presso la sede di Milano Bovisa, dove era possibile confrontarsi con molteplici aspetti della professione. Iniziai ad approfondire i temi legati alla luce durante i corsi di scenografia e fotografia per l’architettura, scoprendo come la luce fosse una materia al contempo tecnica e artistica, con una pluralità di possibili usi ed emozioni che poteva sviluppare, e mi chiesi quali potessero essere le applicazioni di queste tecnologie in ambito monumentale e su beni artistici che approfondivo nei corsi di restauro.
Ebbi la fortuna di poter sperimentare e sviluppare queste esperienze collaborando in quegli anni a un progetto estremamente interessante, la proposta per la nuova illuminazione del Sacro Monte di Orta San Giulio (progettato dall’Arch. Roberto Tognetti in collaborazione con Viabizzuno), un’esperienza che mi ha aperto gli occhi sulle potenzialità incredibili che poteva avere la luce se sviluppata tramite una poetica e una chiave di lettura degli spazi in cui veniva inserita.
I luoghi di culto sono un patrimonio incredibile, nella loro pluralità di forme e differenze compositive mantengono la capacità di trasmettere, a qualsiasi scala, un profondo sentimento nelle persone che li visitano. La luce ha un ruolo determinante nel trasmettere questa emozione, basti pensare all’Abbazia di Sant’Antimo in Toscana, un luogo in cui la luce naturale irradia lo spazio rendendolo trascendentale e senza tempo.
Quello che cerco di trasmettere nei miei interventi, quando opero su un edificio di culto, è quella stessa sensazione, la luce non deve essere un elemento invadente, ma un velo che permea lo spazio valorizzando le sue caratteristiche, creando un’atmosfera sacra, una sensazione percepita a livello interiore.
Credo che nell’approcciarsi a un luogo di culto, si applichi il concetto di Mies van der Rohe “less is more”, serve una luce essenziale che sia una guida che accompagna, e mai protagonista nella lettura dello spazio. Il rischio spesso è quello di esagerare l’illuminazione di un luogo, quando molto spesso bastano pochi elementi luminosi ad evidenziare dettagli mirati per riuscire a trasmettere un’emozione e risaltare l’identità dello spazio.
Ammetto che è stata una sensazione particolare aver ricevuto questo riconoscimento in un periodo così complesso come quello che stiamo vivendo per l’emergenza COVID-19, ma è stata una soddisfazione incredibile che ha dato anche una carica di energia a tutto il team di Luminum per ripartire dopo la crisi con ancora più determinazione.
C’è bisogno ancora di molto lavoro per riconoscere il ruolo del light designer in Italia, una figura che penso sia ormai imprescindibile nella progettazione, al contempo credo sia fondamentale riuscire a trovare nuovi modi di fare squadra e sviluppare network multidisciplinari per riuscire a coordinare e rendere armonici tutti gli elementi di un progetto.
Un messaggio che vorrei dare è quello di continuare a sperimentare, viviamo in un periodo in cui la tecnologia permette di creare e sviluppare il progetto luci in maniere impensabili fino a pochi anni fa, il nostro ruolo è quello di declinare questi strumenti in una visione che sappia emozionare ma al contempo guardi alle esigenze e al benessere delle persone che vivranno o visiteranno quel luogo.
La luce ha un’influenza molto importante nella nostra vita, penso in particolare agli spazi di lavoro, dove una illuminazione sbagliata può rendere difficile se non arrecare danno alle persone, luoghi in cui spesso è la persona a doversi adattare alla luce, quando invece dovrebbe essere l’esatto contrario.
Ogni persona reagisce in modo diverso all’illuminazione, per fattori fisiologici, di abitudine o anche solo di preferenze, grazie alle possibilità date dall’illuminazione a LED, unite alle nuove tecnologie di smart building e IOT, possiamo ormai andare a calibrare la luce sulle esatte esigenze della persona in ogni fase della giornata.
Attualmente sto collaborando alla progettazione di alcuni spazi di degenza innovativi con una fondazione oncologica, dove stiamo applicando un concetto di HCL allo spazio di cura per malati, partendo dalle esigenze del paziente e trovando un sistema IOT con il quale andare a personalizzare l’esperienza dello spazio in base alle specifiche esigenze degli ospiti, facendo si che sia lo spazio a mutare per rendere più favorevole il processo di guarigione. Questo è solo uno degli infiniti esempi di come l’Human Centric Lighting possa essere applicata alla progettazione di uno spazio.
Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di poter sviluppare collaborazioni con diversi enti e fondazioni, che operano in ambiti molto diversi ma con al centro il desiderio di sviluppare un cambiamento importante nelle comunità.
Tra queste sicuramente mi piace citare la Fondazione Riusiamo l’Italia, con la quale stiamo sviluppando un progetto in cui la luce diventa elemento centrale per il recupero del patrimonio storico dismesso, attraverso iniziative in cui l’illuminazione diventi un elemento per rendere più fruibili questi spazi e attivare percorsi partecipati. Il progetto si ricollega al mio percorso “Where there was Light”, un’esperienza in cui utilizzo la light art per valorizzare e dare una nuova identità a luoghi di culto dismessi.
Dan Flavin, come James Turrel e Robert Irwin, hanno avuto una profonda influenza nei miei studi, poiché hanno aperto la strada a un nuovo modo di vedere e vivere la luce nell’arte.
È sicuramente complesso stabilire una linea di confine tra progetto e arte quando si parla di luce. Molto spesso quando intervengo con un’installazione, cerco di far sì che il confine tra funzionalità e arte sia il più possibile fluido.
Un esempio è l’intervento per il portico del Duomo, dove l’installazione ha due anime, una luce di passaggio per chi attraversa il portico e un chiave artistica per chi lo vede dall’esterno, è il passaggio delle persone ad animare lo spazio tramite una geometria di luci che si attiva nell’attraversarlo tramite sensori temporizzati, un’opera studiata per far si che sia visibile da chi sta raggiungendo il quadriportico ma non da chi la attraversa, il quale diventa involontario protagonista dell’opera visibile solo da un occhio esterno.
Con il progetto già citato “Where there was Light” la luce innesca una serie di visioni che possano attivare un nuovo modo di vivere e pensare, diventando innesco per vedere in modo diverso lo spazio e dove la luce diventa il medium per creare nuovi significati e letture di luoghi spesso dimenticati o ignorati.
Purtroppo è un progetto rimasto su carta, una proposta sviluppata diversi anni fa legata all’idea di unire design alle attività commerciali del quartiere, creando dei punti di collegamento con le chiese locali attraverso degli assi che andassero anche a rivedere i percorsi turistico-commerciali consolidati.
Credo fortemente che l’illuminazione delle nostre città richieda uno studio che, non dimenticando normative e le questioni di sicurezza, rivaluti il lato artistico ed emozionale della notte.
Penso che per rivedere un concetto di illuminazione notturna sia obbligatorio esaminare un quadro più ampio, non quello della singola via, ma dell’intera area, dei percorsi che da esso partono e collegano altri quartieri, dei monumenti e anche delle attività commerciali, trovando una mediazione tra armonia della luce e funzionalità.
Siamo un paese ricco di professionalità nel mondo della luce, dell’arte, dell’architettura, riuscire a creare team multidisciplinari quando si progettano questi interventi può offrire infinite opportunità di sviluppare qualcosa di nuovo. Mi rendo conto che sia una sfida per una pubblica amministrazione, ma, avendolo potuto sperimentare in progetti su altre aree urbane, è una visione sicuramente realizzabile e che può portare a risultati incredibili.
In questi anni ci siamo trovati a confrontarci con diverse sfide e luoghi molto complessi, quando ci hanno contattato per collaborare alla progettazione preliminare del Museo dell’Hangar per la parte di illuminazione scenografica, ci siamo trovati a confrontarci con una situazione molto particolare, sia per la definizione delle caratteristiche dello spazio (vista anche l’impossibilità di raggiungere facilmente il sito), sia per le caratteristiche del luogo.
Penso anche più recentemente al Santuario di Barbana sito sull’omonima isola, raggiungibile solo tramite imbarcazione nella laguna di Grado (GO), sono spazi che hai la possibilità di vedere in fase di progetto senza l’afflusso di turisti, in una dimensione quasi sospesa, e a confrontarti anche con le difficoltà logistiche di un cantiere particolare, quando si arriva al risultato finale la soddisfazione è incredibile, sono quei momenti in cui sei felice di aver potuto restituire la tua visione alle persone che visiteranno quel luogo.