Fare cultura a Milano, la parola a Tommaso Sacchi
Le settimane a tema, i grandi eventi e un’offerta integrata. Fare cultura a Milano, fra vecchie glorie e buoni propositi: l’intervista al neoassessore Tommaso Sacchi.
Dopo 7 anni di lavoro nel capoluogo toscano eccomi a casa. Questo primo periodo è stato molto intenso, sono state settimane di ascolto e riflessione. Certo, oggi viviamo un momento fragile e delicato, ci sono settori che sono in uno stato di grande difficoltà e bisogna occuparsene da subito.
Credo sia cambiata, è una città europea e una capitale della creatività e dell’industria creativa. Il Salone, con l’evento delicato del “supersalone”, lo ha dimostrato. Milano ha saputo puntare su aspetti e asset che l’hanno resa capofila, come nell’ambito della rigenerazione urbana. Poi ha saputo valorizzare le reti geografiche, mostrando un mondo che non c’era. Certo è sempre stata fedele alla sua identità ma è anche diventata un luogo di vitalità, è una di quelle metropoli predisposte a cambiare pelle e a rendersi sempre più attrattive.
I festival diffusi rappresentano la natura policentrica e un mondo della creatività acceso anche in maniera simultanea, di cui il rapporto fra Salone e Fuorisalone è il capostipite della filiera.
È storia della città. Dalla metà degli anni ’80, quando la fiera campionaria diventava un momento solido e autorevole di esposizione del design e del mobile nella capitale dell’industria di settore, i mondi creativi indipendenti cercavano uno sfogo alternativo non all’interno del contesto fieristico. È così che è nata Tortona, e poi tutto il resto del Fuorisalone, e si è formato il carattere di Milano.
Il ruolo dell’assessore è stare nel mezzo tra due metodi. Non è un lavoro che può vivere di improvvisazione, non si vive alla giornata. L’assessorato è una macchina di regia e di ascolto, bisogna pianificare azioni importanti interpretando gli aspetti più genetici, come accendere simultaneamente reti cittadine, creare polifonia di racconti - Piano City, Bookcity, il Salone. È un tratto distintivo da cui non si può prescindere. Dall’altro lato, c’è un aspetto che fa parte del ruolo di un assessore che è quello di gestire e ascoltare, confrontarsi in maniera generativa e imparare a gestire il quotidiano, l’emergenza e le cose più urgenti e di stretta attualità.
Se da un lato ci sono tanti momenti importanti ed effimeri, dall’altra parte Milano ha un parterre industriale culturale fatto di privati, grandi istituzioni, moda e design: mondi che creano lavoro e occupazione. Da qui si vede come Milano sia una protagonista dell’Italia dell’industria creativa e della varietà culturale. Il Piccolo, il Teatro alla Scala, La Triennale, l’Hangar Bicocca, la Fondazione Prada propongono una offerta pubblica e fanno parte di un sistema che va tenuto in considerazione e soprattutto va tenuto insieme nella gestione di un’offerta diffusa. Nessuna altra città può vantare questa capillarità e capacità di gestire un tessuto così intenso. Dall’altro lato, Milano ha un intreccio con la valorizzazione di un mondo solidissimo che è un pezzo del comparto industriale. Quale metropoli riesce a intrecciare industria e creatività?
Credo che per uscire dalla crisi sia necessario puntare sulla cultura come leva per la rinascita. Se non lo facessimo, commetteremmo un errore molto grosso.
È presto per fare una programmazione seria, ma nel 2022 ci piacerebbe lanciare un forum nazionale con gli stati generali delle biblioteche nazionali. Il sistema bibliotecario è stato considerato di serie B, invece Milano ha una rete capillare di biblioteche su cui vorremmo puntare. Se guardiamo i dati, c’è un mondo enorme che si serve del servizio più democratico che esista, ovvero i sistemi di prestito. Vorrei far partire una riflessione attenta su come saranno le biblioteche del futuro, anche guardando esperienze all’estero.
Ci piacerebbe lavorare su una programmazione condivisa dei centri espositivi della città, ci sarà modo di presentare un sistema integrato dell’offerta museale ed espositiva più accessibile a tutti.
Sulla cultura di cintura meno centrale il discorso è molto serio. L’idea è di accendere la periferia come luogo dell’offerta culturale. Gli strumenti ci sono, inoltre ho ricevuto il mandato del sindaco Sala con una indicazione chiara. È per noi una sfida molto importante. Ho incontrato i presidenti dei municipi e sto facendo una mappatura dei luoghi potenzialmente adatti ad ospitare cultura, ho attivato il direttore delle biblioteche per valorizzare i centri di quartiere, le case civiche. La cultura in periferia non deve essere periferica. Qui sta la differenza, di non intenderla come un contentino o un’operazione di make-up. Milano ha dimostrato con i fatti che esistono luoghi non centrali, come nel caso dei teatri – Atir, Teatro della Cooperativa, Teatro del Buratto. Quindi si tratta di costruire e prendere in carico luoghi della produzione culturale che diventeranno la struttura per diffondere un’offerta sempre più diffusa nelle reti di quartiere.