Home Sweet Home in Triennale, intervista alla curatrice Nina Bassoli
Nina Bassoli, curatrice per Architettura, rigenerazione urbana e città di Triennale Milano, ci racconta la mostra Home Sweet Home, aperta fino al 10 settembre
La mostra "Home Sweet Home" riflette sull’idea di casa e di abitare, partendo dalla storia dell’istituzione e delle Esposizioni Internazionali della Triennale per arrivare alla contemporaneità grazie ad opere site specific.
Nell’anno del centenario l’idea di casa e di abitare mi è sembrata giusta per celebrare la Triennale che è molto legata ai temi degli interni domestici. Nel corso dei diversi decenni i temi dell’abitare si sono sviluppati in molti modi, soprattutto veicolando determinati valori, come l’idea democratica di poter offrire un alloggio a tutti. Ma dopo non è stata più centrale nel dibattito. Solo durante la pandemia la casa è tornata al centro dell’interesse di tutti, soprattutto nel modo di pensare gli spazi e le relazioni. Ed è questa la chiave con cui ho cercato di interpretare il tema della mostra. Se per diversi decenni la casa ha rappresentato l’idea di un’architettura universalistica, oggi mi piace pensare alla casa per ognuno, che introduce una dimensione intima e sentimentale. La mostra si gioca su questi controcampi.
La mostra intreccia due vicende: la casa nei cento anni della Triennale e le installazioni site specific. Sono state commissionate cinque ricerche negli archivi della Triennale a cinque storiche dell’architettura - Gaia Piccarolo, Annalisa Metta, Maite García Sanchis, Sex & the City e Imma Fiorino - e dieci installazioni a studi di architettura e centri di ricerca - Assemble Studio, Céline Baumann, Matilde Cassani, Canadian Center forArchitecture (CCA), DOGMA, MAIO, Sex & the City, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Diller Scofidio + Renfro e Lacaton & Vassal Architectes. La mostra si compone infatti di quindici mostre nella mostra. Ho pensato di coinvolgere persone che avessero già indagato il tema della casa, chiedendo loro di portare una scintilla. Per esempio, lo studio di architettura catalano MAIO indaga il tema della cucina da molti anni, e coinvolgendo loro sapevo di lavorare intorno ad un canovaccio di una ricerca già impostata. Dogma invece è andato oltre ai temi già indagati nel volume Living and Working, sviluppando un pezzetto extra di ricerca.
Sicuramente l'esempio più evidente riguarda la cucina. È stata per molti decenni un luogo emarginato rispetto al resto della casa e soprattutto rispetto alla società, che la rappresentava come uno spazio nascosto, di cura e preparazione del cibo, svolto in prevalenza dalle donne. Oggi abbiamo assistito ad un’evoluzione di questo ambiente, ad un’idea di condivisione e a un espandersi della cucina nello scenario domestico. L’installazione dello studio MAIO racconta un passaggio in più rispetto a questa evoluzione, aprendo questo lavoro a uno spazio pubblico. È quindi un'operazione anche politica e di riscatto. Un ribaltamento molto evidente negli usi e nei costumi delle famiglie, che implica questioni di genere e anche questioni di economia. Purtroppo, le donne sono sempre state relegate alla sfera domestica e gli uomini alla sfera pubblica, parlando di casa è un tassello abbastanza importante da considerare. Guardando gli archivi della Triennale è davvero molto evidente: si vedono solo uomini in tutte le inaugurazioni, nei momenti pubblici, nei consigli di amministrazione, e persino alle conferenze. Mentre le modelle usate per illustrare la casa sono sempre donne.
Nella mostra ci sono corsi e ricorsi storici, ma anche aspetti che mutano. In alcune mostre degli anni ‘70 e ‘80, molti progettisti da Paolo Deganello a Ugo La Pietra a Ettore Sottsass, disegnavano letti come habitat, dove si poteva trascorrere tanto tempo, grazie anche all’arrivo del televisore. Il letto rappresenta quindi una microunità di un habitat, esteso a tutto il mondo grazie all’evasione dello schermo. Altro esempio è il lavoro che propone DOGMA su una tipologia particolare di abitazione che si chiama Longhouse, case lunghe e strette, che sono state raccolte nel corso dell’ultimo secolo e mezzo. Un progetto che indaga come la separazione tra spazi per la vita e per il lavoro, tra sfera pubblica, privata e rituale, sia una costruzione culturale relativamente recente, e per nulla scontata.
Il rapporto con la natura è molto divertente perché è sempre abbastanza uguale. Il lavoro che ha svolto Annalisa Metta attraverso gli archivi, ci fa vedere gli interni anni ‘50 che più o meno hanno le stesse piante che abbiamo oggi in casa. A questa continuità tematica ci sono poi due installazioni che sono un campanello d’allarme. Da un lato l’opera di Céline Baumann racconta come queste piante sono in realtà state importate da climi tropicali nel periodo coloniale. Lei ci fa riflettere su questa dissonanza cognitiva: un elemento che a noi sembra decorativo in realtà proviene da una storia di violenza e soprusi. L’altro contraltare di riflessione è il Diorama per essere umani di Matilde Cassani, che intende descrivere una nuova fase nel rapporto tra uomo e natura, suggerendo per l’abitazione dell’essere umano le forme e le caratteristiche architettoniche di un bioparco.
La mostra è incentrata sull’architettura, cercando di ragionare sui comportamenti che le persone hanno nello spazio. Gli oggetti sono parte di questa geografica. Al centro c’è infatti il tema delle relazioni e gli oggetti sono considerati alla stregua degli abitanti.
Il senso è racchiuso nell’immagine finale della mostra che propone un edificio in grande scala dove si vedono un centinaio di finestre. L’opera di Lacaton & Vassal è molto paradigmatica, perché è un lavoro di trasformazione e non di costruzione. Immagino la casa del futuro come un elemento stratificato, di layer storici, mentali e anche di usi. Un’idea meno standard e diversificata rispetto a quella a cui siamo abituati a pensare. Una casa ibrida dove tutto è più sfumato.