L’opera d’arte totale secondo Alex Da Corte
Alex da Corte è, tra le altre cose, uno degli artisti più sensibili della sua generazione nel rapportarsi con lo spazio, nelle sue declinazioni tra fiction e realtà. Negli ultimi anni d’intensa produzione ha generato una serie di ambienti immersivi che affascinano e interrogano il presente…
Negli ultimi quindici anni l’artista americano Alex Da Corte (1980, Camden - NJ) ha sviluppato un linguaggio del tutto personale, che muove da una totale rimodellazione della realtà, intendendo questo ponderoso termine nella sua accezione paradossalmente più artificiale, come costruzione simbolica generata in decenni di rappresentazioni di fiction e di tutti i cascami dello spettacolo infinito della merce. Attenzione però: perché Da Corte non si limita a manifestare in icone seducenti il mondo dei consumi e dei media come già fecero gli artisti della Pop; l’artista reifica quel mondo trasformandolo in puro spazio, dove ogni elemento disposto tramite l’approccio multimediale è teso a tradurre qualcosa di sfuggente, immateriale che ci pare sempre di riconoscere attraverso uno schermo ma che sembra non poter esistere al di fuori di una superficie luminosa.
Ad un presente che ci vede destinati a venir inghiottiti da noiosi metaversi da esplorare “bendati” da visori digitali, Da Corte oppone una versione analogica di realtà aumentata che sembra voler dare un nuovo significato al concetto Wagneriano di Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale).
Nelle tante prestigiose occasioni che il prolifico artista ha finora avuto per progettare le sue installazioni, Da Corte si è distinto come un audace creatore di oggetti e un raffinato architetto di ambienti, attento a far coincidere l’elemento decorativo dato da pattern e vividi colori di tappezzerie, oggetti e mobili con le “texture” e la palette fluo dei suoi video, vere e proprie prosecuzioni degli spazi reali. Dai primi lavori come Easternsports (2014) all’University of Pennsylvania, a mostre come Devil Town (2015), allestita presso la galleria milanese Gió Marconi appare evidente quanto il senso complessivo scenografico ed estraniante sia ottenuto mendiate una sapiente calibrazione di ogni piccolo e grande props ed elemento architettonico pescato da un repertorio stilistico pressoché infinito. Non si tratta, come si potrebbe facilmente equivocare, di un esercizio post-moderno, poiché i riferimenti di Da Corte si sono ormai già persi, mischiati, rimescolati e totalmente annullati nelle varie stratificazioni storiche.
Se dovessimo trovare riferimenti ‘alti’, questi andrebbero cercati in prototipi quali quelli pensati per le pioneristiche installazioni degli artisti inglesi dell’Indipendent Group, in mostre come la seminale This is Tomorrow (1956) e in particolare in ambienti come la Fun House concepita da Richard Hamilton, John Voelcker e John McHale. Oppure, ritrovare nel presente, corrispondenze con artisti coevi a Da Corte come il francese Neïl Beloufa, passato di recente anche a Milano nella grande mostra Digital Mourning (2021, Hangar Bicocca). Se tali riferimenti e omologie siano effettivamente presenti nei lavori dell’artista è in fondo non così importante saperlo, poiché la sensazione più impattante per il visitatore è quella di attraversare ambientazioni di un immaginario tanto di finzione quanto concreto e sedimentato nella nostra esperienza di spettatori; lavori come Free Roses (2017 al MASS MoCa di North Adams) o THE SUPƎRMAN (2018 al Kölnischer Kunstverein, Cologne) restituiscono nella tridimensionalità spazi, interni e colori che frequentiamo nel mondo dei The Simpsons o Roger Rabbit più che nelle sofisticate teorie e nei lavori di maestri come Robert Venturi.
Da Corte ci vuole far percepire la totale continuità con le nostro modo di abitare spazi che sono già esperienze pregresse in prodotti di finzione, in una sua mostra intitola C-A-T Spells Murder, l’ispirazione parte dalla copertina del romanzo Cat (1997), della fortunata serie Fear Street dell'autore di romanzi horror per adolescenti R. L. Stine: più che allo storytelling o a qualche forma di coerenza con il contenuto del libro, Da Corte è interessato al suo immaginario, appropriandosene ed espandendolo a modo suo nello spazio reale. Analogamente, per la mostra Helter Shelter or: The Red Show! or… (2020) presso la galleria londinese Sadie Coles HQ, l’artista creò delle grandi pareti-tele dove, quasi come se il visitatore fosse rimpicciolito, si aveva la sensazione di essere entrati nelle gigantesche pagine di un abecedario, con illustrazioni talvolta ambigue saccheggiate dal mondo dei comics, dei cartoons e da altre fonti non così immediatamente riconoscibili. L’odierna neurobiologia rileva la sostanziale differenza tra il cervello completamente formato di un adulto e orientato al giudizio razionale tipicamente controllato dalla corteccia prefrontale, mentre riconduce al sistema limbico (o cervello emotivo) l’agire della mente di un adolescente: consapevole o no di tali teorie, Da Corte mischia con calcolata sapienza istanze tanto razionali in termini spaziali quanto effetti camp e catchy, tipici di quell’economia dell’attenzione che governa il nostro presente.
Nel 2020 Alex Da Corte ha presentato nei lussuosi interni Liberty di Prada Rong Zhai a Shanghai la sua ennesima fatica Rubber Pencil Devil, una versione assolutamente site-specific dell’opera di videoarte concepita nel 2018; un corpus di video composti da 57 capitoli e un prologo dove per l’occasione l’artista a pensato ad un allestimento composto da 19 grandi cubi a retroproiezione installati nei due piani principali del palazzo, conferendo una nuova configurazione spaziale all’opera. Oltre lo schermo, impazzano in un universo Technicolor personaggi interpretati dall’artista stesso, dedito alla trasfigurazione e a vestire i panni di personaggi che spaziano da Eminem a Mister Rogers, dalla Malvagia Strega di OZ ai pupazzi di Sesame Street.
Sempre recentemente, Il Metropolitan Museum of Art di New York ha invitato l'artista a progettare un'installazione scultorea site-specific per il suo giardino pensile intitolato a Iris e B. Gerald Cantor. L'opera, realizzata in acciaio inossidabile, fibra di vetro e alluminio e intitolata As Long as the Sun Lasts, è stata esposta dal 16 aprile al 31 ottobre 2021. Si trattava di un grande mobile che l’artista dice di aver pensato durante le ore più dure della pandemia partendo dalla lettura del racconto di Italo Calvino Fino a che dura il sole che racconta di viaggiatori intergalattici intenti a cercare un pianeta abitabile mentre il Sole si stava ancora formando nella nostra galassia. La grande scultura che, esattamente come quelle di Calder che deliberatamente cita, si muove con il vento, ma oltre alle forme astratte e i colori primari è però caratterizzata da un grande uccello blu, tra il buffo e il malinconico, nel quale si ravvede una somiglianza con il personaggio Big Bird dal Muppet Show, un’operazione che il New York Times ha definito “instagrammabile da morire” e che anche per questo appartiene contemporaneamente tanto allo spazio reale tanto alla dimensione virtuale.