A lezione dal passato per un futuro sostenibile. La visione di Timothy Ingold

Timothy Ingold, Emeritus Professor of Social Anthropology, University of Aberdeen - Ph. Serena Campanini
L’antropologo britannico, tra le voci più originali del pensiero contemporaneo, sarà tra gli ospiti di Euroluce International Lighting Forum ad aprile. Lo abbiamo intervistato sul suo rapporto con la luce e sulle sue ricette per superare la crisi ambientale
Professore emerito di antropologia sociale all’Università di Aberdeen, in Scozia, e autore di testi importanti come Making e Il futuro alle spalle, Timothy Ingold (1948) ha dedicato gran parte della sua carriera a seguire le linee che collegano gli esseri umani tra loro in una rete di relazioni sociali e li congiungono con la natura. Il suo interesse per l’ecologia è nato in tempi non sospetti, a partire dalla prima ricerca sul campo, una sorta di rito di passaggio per gli studenti di antropologia, che lo ha portato tra le frugalissime popolazioni Sami della Lapponia, e dal primo corso universitario da lui tenuto – a Manchester, a partire dal 1974 –, intitolato proprio Ambiente e tecnologia. Tra le idee sulle quali sta lavorando in questo periodo c’è quella di un nuovo umanesimo che ci aiuti a smettere di rincorrere un progresso senza freni per recuperare il rapporto con la natura seguendo gli insegnamenti dei nostri antenati. Tra poco più di un mese verrà a Milano per partecipare a una tavola rotonda (11 aprile, ore 14.00) nell’ambito di Euroluce International Lighting Forum, un progetto diretto da Annalisa Rosso, editorial director e cultural events advisor del Salone del Mobile.Milano, in collaborazione con APIL. Nell’attesa, abbiamo fatto una chiacchierata con lui toccando diversi temi, dalle disuguaglianze globali alle città del futuro.
Vorrei offrire un punto di vista filosofico, semplicemente ponendo la questione di che cosa sia davvero la luce. È una domanda alla quale è molto difficile rispondere. E vorrei far pensare alla luce in termini diversi da quelli prettamente scientifici o tecnici, come a qualcosa di cui facciamo l’esperienza e che non è necessariamente uguale per tutti. Una cosa che mi ha colpito è che prima dell'avvento dell'elettricità la maggior parte della popolazione mondiale, se interrogata sulla natura della luce, avrebbe menzionato prima di tutto il suo calore. Nei loro racconti ci sarebbe stata per forza di cose una torcia, una candela, o comunque una fiamma, qualcosa che brucia. Oggi, invece, quando pensiamo alla luce immaginiamo dei raggi che emanano da una sorgente luminosa. Un altro concetto interessante è la lucentezza.
I fisici descrivono la luce come una forma di radiazione elettromagnetica che viene registrata dai nostri occhi. Potremmo disegnare una linea retta che va dalla sorgente luminosa, il sole o qualcos'altro, fino all'occhio e dire che la luce viaggia dal punto A al punto B. In questo tipo di narrazione non c'è spazio per la lucentezza, per il brillio, un fenomeno che sperimentiamo però nella vita reale. La nostra visione della luce è passata gradualmente da un modello esperienziale a uno fisico-oggettivo e questo cambiamento di prospettiva non è privo di implicazioni.
Esistono senz'altro dei luoghi dove la disponibilità di corrente elettrica è limitata o inaffidabile, e dove le persone non possono dare per scontato il fatto che se premono un interruttore la luce si accenderà in maniera istantanea. Ho condotto la mia prima ricerca sul campo come antropologo, all'inizio degli anni Settanta, presso i Sami dell'estremo nord della Finlandia. Non avevano l'elettricità, e in quella parte del mondo il sole sale a malapena sopra l'orizzonte durante l'inverno, quindici siamo abituati a usare diversi tipi di aggeggi a combustione: lampade a paraffina, candele... Forse la fascinazione che provo per la luce è figlia di quell’esperienza.
Certamente, al giorno d'oggi, abitare in case con grandi finestre che lasciano entrare la luce naturale è un segno di ricchezza e di prestigio. Un'altra cosa che mi viene in mente è che l'assenza di luce, cioè il buio, ha un impatto diverso sugli uomini e sulle donne, per le quali può essere molto pericoloso camminare in una strada poco illuminata di sera. È un tema che dovrebbe essere preso in considerazione da chi si occupa di politiche urbane.
L'umanesimo che abbiamo ereditato dall'illuminismo è una dottrina del progresso, basata sull'idea che ogni nuova generazione vivrà una vita migliore rispetto alle precedenti. Ci siamo accorti però che quel tipo di progresso non è più sostenibile, per due motivi: in primis perché quello che per qualcuno rappresenta un miglioramento della propria condizione può significare oppressione per altri, e poi perché per averlo abbiamo pagato un prezzo molto alto, cioè la devastazione del nostro ecosistema. La dottrina illuminista del progresso ha portato a una spirale di degrado ambientale e ingiustizia sociale. Ecco dove ci troviamo in questo momento, presi in una morsa tra una élite neoliberale che si sta accaparrando tutte le ricchezze e una vasta maggioranza che si sente oppressa e calpestata.
Se vogliamo essere in grado di trasmettere un pianeta in buona salute alle generazioni future dobbiamo per forza tentare un’altra strada. I post-umanisti ci dicono che ci dobbiamo liberare dell’antropocentrismo e dell’idea dell’eccezionalità degli esseri umani, io invece dico che a essere eccezionale è semmai la responsabilità che abbiamo nei confronti delle altre specie. Ci serve una filosofia che metta l’uomo al centro delle cose e si batta per un mondo sostenibile e fondato sul principio della continuità della vita, alla quale dobbiamo pensare in termini non solo di innovazione o di progresso ma anche di riparazione e rinnovamento dell’esistente.
Ci sono tre grandi idee che secondo me continuano a essere di grande attualità, e che però dovrebbero essere comprese nel loro significato premoderno: l’essere umano, la natura e la cultura. Il concetto di umanità come lo intendiamo oggi, per esempio, è figlio dell’illuminismo ma il termine “humanus” è molto più antico. Il mistico catalano Raimondo Lullo scrisse nel 13esimo secolo che “homo est animal homificans”: questa frase ci insegna che l'“essere umani” può anche essere un verbo e indicare la nostra speciale capacità di continuare a reinventarci.
Per quello che mi sembra di capire, la bolla della rivoluzione digitale prima o poi è destinata a scoppiare. Si parla molto delle terre rare, di quegli elementi presenti in alcuni minerali che sono essenziali per produrre i nostri dispositivi elettronici, e del fatto che la loro estrazione ha effetti distruttivi sull'ambiente. La domanda continuerà senz'altro a crescere e i danni ecologici saranno tali da far impallidire, al confronto, quelli causati dalla rivoluzione industriale. A questo dobbiamo aggiungere l'enorme consumo energetico dell'intelligenza artificiale. Se vogliamo essere dei buoni antenati per chi verrà dopo di noi dobbiamo avere cura delle abilità non digitali delle quali avranno bisogno mantenere un legame con la terra. Credo che nel futuro continueremo a vivere in situazioni ad alta densità abitativa, e che nelle città ci sarà una qualche forma di compenetrazione tra architettura e agricoltura perché i nostri discendenti avranno ancora bisogno di nutrirsi. Le città del futuro potrebbero somigliare a modelli molto antichi: la civiltà Maya, per esempio, ha generato conurbazioni piuttosto grandi e complesse con sistemi di irrigazione per la coltivazione di diversi tipi di cereali e piante.