Una conversazione privata con Antonio Citterio

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Treasure Garden in Taichung, Taiwan, 2018. Photo Sam Siew Shien

“Il lavoro di architetto è per me come il mestiere dell’artigiano, abituato a passare per i banchi per il rapporto di confronto e scambio che richiede un progetto”. In conversazione con Antonio Citterio

Sobrietà, innovazione, consistenza, rapporti: in due parole Antonio Citterio, un vero long-seller. Per l’architetto il 2020 è stato coincidenza di ben tre anniversari: i suoi 70 anni, i 50 di carriera e il ventennale del suo studio con sede a Milano che si occupa di grandi progetti. Ufficio diventato nel frattempo ACPV Architects, con la seconda parte dell’acronimo che individua l’architetta Patricia Viel, Ceo del gruppo con otto partner, uno staff di 170 persone e una serie di realizzazioni su scala globale.

Compasso d’Oro ADI nel 1987, nel 1994 e alla carriera l’anno scorso, Citterio ha affermato in un film-documentario del 2021 The Importance of Being an Architect. Tra qualche mese uscirà il libro “con cui cerco di spiegare il mio pensiero attraverso il design dal ‘70 a oggi”, quella agilità intellettuale che gli consente di risolvere con la stessa chiarezza il disegno di un divano e di un grattacielo.

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Antonio Citterio and Patricia Viel, photo Settimio Benedusi

Com'è mutato lo scenario nel design e nell’architettura in questi ultimi anni?

C’è sicuramente molta più voglia di viaggiare, più gente in giro ed è cambiato l’approccio al lavoro, una tendenza non so quanto duratura. Molti preferiscono farlo da casa, bisogna capire se ci sarà un riscontro positivo in efficienza o se creerà invece una sorta di “decrescita felice”. Ci sono casi in cui non è nemmeno attuabile – per chi è impiegato nella sanità o in fabbrica, ad esempio – il che potrebbe far nascere delle discriminazioni.

 

Lei come lo vive?

Mi pesano tanto le persone che mancano in studio. Il lavoro di architetto è per me come il mestiere dell’artigiano, abituato a passare per i banchi per il rapporto di confronto e scambio che richiede un progetto. In sostanza, non credo sia corretto, forse perché appartengo ad un’altra generazione. Infatti faccio con grande fatica le riunioni via Zoom che, in compenso, hanno ridotto un bel po’ i viaggi: quando i miei figli erano piccoli pensavano avessi un’altra famiglia perché andavo continuamente a Basilea, da Vitra.

 

E come è cambiato l’ambiente domestico nel recente periodo?

C’è stata una sorta di esplosione, come se la gente si fosse resa conto di vivere in posti un po’ inadeguati. Tutto è ancora un po’ confuso, ma la casa deve necessariamente cambiare. C’è senz’altro una grande richiesta di spazi abitativi di qualità. Noi attualmente stiamo lavorando a ben cinque grattacieli in estremo oriente. È invece migliorata improvvisamente la sensibilità comune sulla sostenibilità, conseguenza anche degli eventi bellici recenti.

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Sukhumvit THIRTY-EIGHT, Bangkok, Thailand, 2022. Photo Wison Tungthunya

Non sarebbe il caso di iniziare a ridurre la produzione o di rivederne le dinamiche?

Già 25 anni fa con Vitra abbiamo iniziato a farci domande sul fine vita del prodotto, allora sembrava fantascienza. Nel settore dell’imbottito, ad esempio, uno dei grandi problemi è l’uso del poliuretano, per sua composizione non riciclabile. In quest’ottica sono stati concepiti dei prodotti come il divano Esosoft per Cassina, la seduta ID Cloud di Vitra ma anche la serie Klismos di Knoll.

 

Ha ancora senso aspettare tre mesi per un divano?

Se appartiene a una fascia di mercato del lusso, sì. C’è piuttosto da chiedersi se ha ancora senso produrre un divano per poi spedirlo in America via nave. Quello che succederà sarà l’ottimizzazione più logica e la localizzazione della produzione, che abbatteranno i costi di trasporto, come è successo nel mondo della moda.

 

Assisteremo sempre di più all’allargamento del divario tra fasce di prodotto?

Continuando il parallelo con la moda, io mi vesto con dei capi che costano pochissimo, che poi mischio con altri più ricercati. È sempre l’economia che guida il trend e sta sparendo sicuramente il prodotto di mezzo, cosa che creerà una crisi.

 

Lei riesce a progettare con la stessa sobrietà arredi e grandi edifici, come fa?

Non ho mai pensato al design come espressione ma piuttosto privilegiando la sintesi del prodotto. Se penso che nel ’86 ho introdotto il divano con l’elemento penisola (Sity per B&B Italia, premiato con il Compasso d'Oro, ndr), che oggi è la norma, ma l’ho inventato io! Le mie sperimentazioni tipologiche – su cucine, bagni e guardaroba – rappresentano dei grandi cambiamenti all’interno dello spazio abitativo.

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Knoll, Klismos, design Antonio Citterio, 2022. Photo Federico Cedrone, courtesy Knoll

Certi suoi colleghi, anche illustri, non riescono nell’impresa: o fanno bene una cosa o l’altra …

Osservazione interessante e, senza polemica, va detto che per molti anni i designer non siano stati ben visti dal mondo dell’architettura. In realtà, la storia è stata scritta da grandi che operavano in entrambi gli ambiti, penso a Gio Ponti, Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe.

 

Lì non torna il conto: dietro ad alcuni di questi, per gli arredi, c’era la mano di Lilly Reich, Charlotte Perriand, forse quello che lei afferma vale solo per gli italiani…

In effetti, noi abbiamo avuto Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Gio Ponti: essere completi è proprio nella nostra tradizione. Intendo dire che l’arredo e la progettazione degli interni un tempo erano parte integrante dell’architettura. La frattura si è creata negli anni '80, originata dal mondo anglosassone, in Italia non avevamo scuole puramente di design. I concetti di creatività e innovazione sono molto più facilmente legati al design, mentre l’architettura ti porta a risolvere un problema.

 

A proposito, cosa pensa del progetto urbano di The Line in Arabia Saudita?

Sinceramente, non lo so. Questo vivere da ape o formica è talmente lontano dalla mia visione architettonica e della città. Basta andare a vedere cosa è stato fatto in Italia, in piccolo, con progetti tipo Le Vele a Napoli o il Nuovo Corviale a Roma: degli esperimenti fallimentari che fanno quasi ridere.

 

Il pezzo che ha disegnato che ricorda con più affetto?

Ho aperto lo studio che avevo ancora 20 anni. Ho avuto la fortuna di conoscere Piero Ambrogio Busnelli di B&B Italia, Doug Tompkins di Esprit, Rolf Fehlbaum di Vitra: tre incontri fondamentali con dei lungimiranti, fautori dei primi prodotti che hanno tracciato una direzione. Ricordo Esprit, la sede di Amsterdam (1987), che ha segnato anche la mia vita privata: mi ha fatto conoscere una giovane architetta americana diventata poi mia moglie, Terry Dwan.

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Esprit headquarters, Milano, 1988. Photo Gabriele Basilico

Anche Ettore Sottsass disegnava per Esprit, ricordo l’innovativo negozio di Dusseldorf…

Infatti, ed è stato lui a segnalarmi per il progetto milanese. Il mio mestiere è legato al dialogo e al ping pong di conoscenze che fanno girare la vita; stessa cosa per i prodotti: ci sono dei momenti magici, fatti di rapporti personali e aziende. Intervengono anche altre dinamiche, richieste commerciali che devono far fronte a una concorrenza, all’innovazione, cosa che non avviene quando si costruisce. Per l’architettura contano altri fattori ma essa deve, in primis, diventare un luogo.

 

A questo proposito cito sempre come esempio riuscito la prima Tate Modern a Londra firmata Herzog & de Meuron (2000), una vera piazza urbana…

Non sempre tutti ci riescono, spesso si risolve solamente in una grande enfasi architettonica. Il successo è determinato da X fattori – casualità, momento storico, situazione economica. Ultimamente ho visitato a Londra l’area Coal Drops Yard dietro la stazione di King’s Cross e l’ho trovata interessante, con un feeling positivo che non riscontro, ad esempio, in America. Ho molto amato New York, i miei due figli vivono lì, ma in questo momento non la trovo più stimolante dal punto di vista creativo. Noi non vogliamo essere innovativi a tutti i costi, non mi interessa riconoscere la mia firma su un edificio.

 

Infatti ho da sempre l’impressione che a lei stia a cuore maggiormente il compito fatto bene …

È una questione di approccio. Ad esempio, io e Zaha Hadid eravamo amici anche se culturalmente diversi. Ricordo un suo progetto per una casa in Russia (Capital Hill Residence per Vladislav Doronin, ndr), io ero stato interpellato per gli interni. Ero reticente, ho risposto che dovevo sentire lei prima di accettare. Zaha mi ha intimato “assolutamente no, non provarci nemmeno!”. Era insopportabile e piacevole allo stesso tempo, con un carattere espressivo molto forte: tutto doveva essere riferito a lei. Fare un museo come il MAXXI con le pareti inclinate non ha francamente senso.

 

Chi è stato il più bravo in assoluto?

Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe, ai quali ho sempre guardato; Louis Kahn, per certi versi molto più affine a quello che ho fatto. Sono uno che osserva tutti, famosi e meno, sempre molto attento a capire.

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Treasure Garden in Taichung, Taiwan, 2018. Photo Sam Siew Shien 

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Esprit headquarters, Milano, 1988. Photo Gabriele Basilico

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Symbiosis Building D, Milano, Italy, 2022. Photo Leo Torri

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Flexform showroom, Milano, Italy, 2022. Photo Matteo Imbriani

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1 febbraio 2023